Cercasi riformista
per il dopo Napolitano

Riforme e stabilità: senza l’una non c’è l’altra, e viceversa. Gli ultimi interventi di Giorgio Napolitano, ormai in uscita, equivalgono a un testamento politico: un lascito al suo successore, che dovrà esercitare la «pressione morale» perché il Paese cambi, correggendo «taluni mali antichi che negli ultimi anni hanno frenato lo sviluppo». Napolitano, il solo presidente bis della storia repubblicana, è stato il garante della stabilità in un’Italia da riformare, da rivoltare come un calzino: dal 2006 ha rappresentato l’unico punto fermo dinanzi alla fragilità e alle divisioni del ceto politico.

L’augurio è che il futuro inquilino del Colle prosegua su questa strada peraltro già chiaramente tracciata, anche perché indietro non si torna: il dopo Napolitano inizia con il conforto di una lezione riformista nel segno dei valori costituzionali. Il Quirinale è l’unica istituzione che gode di prestigio, anche nelle sedi internazionali che contano. Anzi: il suo appeal cresce nella misura in cui scende il gradimento, ormai bassissimo, verso i partiti. Alla Costituzione formale se n’è aggiunta una materiale: da Pertini in poi, e in un sistema parlamentare che risente delle suggestioni presidenzialiste, sono aumentati gli spazi di intervento del presidente della Repubblica fino ad assolvere ruoli di supplenza, in un meccanismo di vasi comunicanti con il parlamento e il governo.

Ma c’è dell’altro: è con Napolitano, ancor più di Ciampi, che abbiamo visto al meglio il ruolo attivo, l’interventismo della massima carica dello Stato. In condizioni drammatiche e gestite con sangue freddo, come in occasione del passaggio da Berlusconi a Monti, che salvò il Paese dal default: la manovra più delicata e la più discussa. Eletto con i soli voti del centrosinistra, Napolitano ha mantenuto la promessa fatta quel 15 maggio 2006, il giorno dell’insediamento («Non sarò mai solo il presidente della maggioranza che mi ha eletto: sarò il presidente di tutti») e questo è dimostrato dalle critiche che gli sono giunte sia dalla destra sia dalla sinistra oltranzista. Entrato al Colle come primo ex comunista, ne è uscito da statista: l’Italia dovrebbe essergliene grata.

Quanto al prossimo grande gioco del Quirinale, c’è un equivoco da sgomberare: l’elezione del presidente è una faccenda troppo seria per lasciarla in mano all’audience. In sostanza, la corsa al Colle andrebbe messa in sicurezza dalla tentazione della «popolarità»: Ciampi e Napolitano non erano popolari in partenza, ma lo sono diventati in base al loro ineccepibile stile istituzionale.

La prima vera questione da risolvere è nelle mani di Renzi: dal nome che indicherà il premier, che con Napolitano perde un preciso punto di riferimento e una tutela esplicita, sapremo se sarà un candidato «politico» o se viceversa il capo del governo e leader del Pd sceglierà la scorciatoia di un presidente meno ingombrante, ovvero dal profilo notarile, quello di «spettatore inerte e silenzioso». Capiremo, cioè, se Renzi intende giocare la partita riformista in modo collegiale o se invece perpetui il tic democristiano, quando i notabili di quel partito sponsorizzavano personaggi innocui: fu così anche con Cossiga e poi se ne pentirono amaramente.

L’altra questione è che, come sempre avviene in questi appuntamenti, il parlamento si trasforma in un Vietnam. E questa volta, dopo lo spettacolo degradante dei 101 franchi tiratori che impallinarono Prodi, il pericolo è di nuovo alle viste. Lo schema dei sabotatori è usare l’elezione per far saltare Renzi come già era successo al povero Bersani: al pari dell’ingordigia degli speculatori di Borsa che annusano le prede da spolpare, cecchini e peones a briglia sciolta hanno davanti una giungla in cui consumare vendette trasversali, tanto più che l’elezione serve a scopi diversi a ciascun partito. La partita del Colle rischia così di essere per Renzi e per Berlusconi, uniti dal patto del Nazareno sulla riforma elettorale, la «tempesta perfetta», in quanto il parlamento è la stanza di compensazione dello scontro fra i due leader e i loro oppositori interni: il grande contenitore in cui scaricare gli effetti di sconfitte non accettate e ricomporre la rivincita.

Dinanzi a queste miserie umane, è opportuno ricordare il metodo Ciampi, cioè l’elezione al primo turno senza scossoni, che rivela come si possano superare grandi difficoltà con una sapiente manovra politica. Capacità «politica» (con le virgolette), che è stata la cifra di Napolitano. Si faccia in modo, cortesemente, che almeno le sue – per citare i celebri scritti di Einaudi – non siano «prediche inutili».

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